Asso di cuori
Mi hanno detto che è andato tutto bene. Del resto dicono sempre così quando il paziente non trapassa, perché in quel caso sono sopraggiunte imprevedibili complicazioni. In verità è successo tutto così in fretta che faccio fatica a mettere a fuoco gli eventi. Mi serve ancora un po' di tempo, anche per gioire. Per ora riconosco solo il mio abituale sarcasmo, quello che ho cominciato a secernere all'inizio della malattia e che piano piano ha finito con l'avvolgermi del tutto.
Avete presente il bacco da seta? Per costruirsi il bozzolo le sue ghiandole labiali emettono una quantità di bava sericea che arriva ad una lunghezza di parecchie centinaia di metri. Così è stato per me.
Anche dalla mia bocca fuoriescono fili che mi avviluppano: sono lunghi fili di rabbia che diventano frasi amare e taglienti. D'altronde non puoi che sbavare rabbia quando scopri che il tuo cuore si è rotto per sempre e che l'unica speranza di sopravvivenza è legata ad un trapianto da fare nel più breve tempo possibile. Il tutto quando non hai ancora compiuto trentacinque anni.
Da un giorno all'altro da sano che eri, o credevi di essere, diventi un malato cronico. I pensieri ti esplodono in testa, è l'apocalisse del tuo cervello. Di quei progetti, pensati sognati sospirati, non ne rimane traccia. Scomparsi per sempre.
Ti abbarbichi all'ultimo: sopravvivere.
L'orizzonte che si allungava pieno di luce davanti a te e sul quale era bello posare gli occhi è diventato all'improvviso stretto e nero come il buco di un cesso. Arteriopatia periferica di Buerger. Prima dell'apocalisse poteva essere la formula della dissociazione elettrolitica o il nome della teoria quantistica della velocità assoluta di reazione o qualsiasi altra inutile astrusità accademica. Dopo l'apocalisse, atrocemente concreto, è ciò che ha trasformato la tua vita nel buco di un cesso. È il tuo cuore guasto, l'aritmia che ha inceppato per sempre l'ingranaggio.
E ti sembra incredibile ricordare, oggi che sei sull'orlo dell'abisso, che tutto è cominciato con un dolorino da niente che prendeva il polpaccio quando cominciavi a camminare e spariva quando ti fermavi. Sarà un fastidio nervoso o muscolare, non è neanche il caso di andare dal dottore, passerà da solo. E invece non è passato. Quando esci dallo studio medico, dopo che hai rimesso insieme i cocci dei tuoi pensieri, la rabbia comincia a filare dalla bocca, e odi tutti. Tutti quelli che vedi, tutti quelli che incontri. Perché loro sono sani e tu no. Perché loro hanno ancora un orizzonte da contemplare e tu no. Perché loro vivranno e tu no.
Quando esci da lì sei cosciente che si è appoggiato su di te un insetto ripugnante, un ragno immondo e peloso che piano piano ti succhierà la vita. Gli altri non lo vedono ma tu sai che c'è. Sarebbe bello poterlo prendere così, con due dita, tale è il ribrezzo, e schiacciarlo sul marciapiede con la punta della scarpa. Ma è troppo tardi, non si può più. E con quell'insetto addosso ti accorgi in fretta di come sia difficile continuare a vivere. Anche leggere, passeggiare, mangiare un gelato, compiere il più piccolo gesto di una giornata qualsiasi diventa faticoso ed in certi momenti, così, all'improvviso, ti sembra che niente abbia più un senso.
Ma oggi è un giorno nuovo perché tutto è andato bene. Mi hanno chiamato nella notte dal Niguarda. Era arrivato un cuore, un cuore compatibile. Non c'era tempo da perdere. Sì, esattamente così. Come il libraio che vi avvisa che è arrivato il libro che avete prenotato. Come l'agenzia di viaggi che vi telefona per dirvi che sono arrivati i biglietti della vostra vacanza. E invece era un cuore. Se vi sembra un linguaggio troppo crudo non siete mai stati davanti ad un dottore che sta tentando di dirvi che la vostra vita è finita. Adesso sono qui, in terapia intensiva. Chissà se c'è ancora la bestia immonda.
"Suor Beatrice vede qualche ragno sopra di me?"
"Nessun ragno Dante. Sopra di lei vedo solo la Divina Provvidenza. Quella che l'ha salvata".
Chiudo gli occhi e sento battere il mio cuore, tum tum tum, meravigliosamente in sincrono ed ogni sistole mi risospinge dentro la vita, mi riapre un pezzo d'orizzonte. Il mio cuore... mio Dio... ma posso ancora dire "il mio cuore"? La domanda mi attraversa la mente come una scossa elettrica. Sembra che solo adesso abbia compreso del tutto l'enormità della cosa: dentro di me sta battendo il cuore di un'altra persona.
Chi era? Com'era? La parete bianca davanti a me si popola all'improvviso di fantasmi sconosciuti. Cerco di immaginare tra milioni di vite quella che adesso batte dentro di me. So che d'ora in poi sarà il pensiero costante delle mie giornate. Lo cercherò con il naso per aria nelle mille forme delle nuvole, nelle ombre vaghe di una vetrina, nella folla vociante della metropolitana. Il suo cuore era compatibile, non doveva essere molto diverso da me, quindi maschio, più o meno la stessa età, più o meno lo stesso peso.
Suor Beatrice continua ad armeggiare davanti al carrello per preparare i dosaggi degli anti-immunitari.
"Chi mi ha regalato la vita, sorella?"
"Nessun nome Dante, lo sa, è la regola. È stato un angelo ad averle donato il suo cuore".
"Mi dica almeno come è successo".
"Un incidente stradale, a Pavia. Faceva giog... come si dice... insomma... correva. Correva sul ciglio della strada, era sera, una macchina non l'ha visto e l'ha investito".
Correva. Un'altra indicazione, ulteriore linfa per la mia immaginazione. Forse era un impiegato, sempre seduto, a casa ed in ufficio. E tentava di tenere faticosamente a freno il lievitare della pancia. O magari era un manager, tutto rigore e disciplina, uno del tipo "Bello mio, oggi l'immagine è tutto" e così prolungava lì, sulla strada, il suo orario di lavoro, perché anche quello era lavoro. O forse si era appena separato. E voleva ricostruire la sua vita partendo da lì, dall'aspetto fisico. Sciogliendo con la corsa anni di pastasciutte, pantofole e litigi. Da una triste crisalide rinascere farfalla per volare via, verso una nuova vita.
Mi accorgo in realtà di essere al punto di partenza, possono essere infinite le ragioni per cui si decide di cominciare a correre. E in fondo, a pensarci, non doveva essere nemmeno così simile a me. Se c'è una cosa nella vita che non farò mai è proprio quella, correre. Se devo bruciare zuccheri in esubero lo faccio con una nottata di poker. Io sono per le emozioni breve ed intense. Spizzico l'ultima carta e so immediatamente se sarà inferno o paradiso. Non sono fatto per le lunghe distanze. Correre non appartiene alla mia mentalità; troppo dilatato nel tempo, troppo ripetitivo nel modo. Ciò che mi appassiona deve schioccare come una frusta, esplodere nel cielo come un fuoco d'artificio, deve bruciare in fretta.
Il problema è che stava bruciando in fretta anche la mia vita. Tra partite di poker, stress e sigarette sulla scena stava già calando il sipario. Oggi la mia grande paura è quella di non riuscire a cambiare lo spettacolo. In questo senso sono sicuro che i miei amici non mi saranno granchè di aiuto. Non sono soggetti eticamente ragguardevoli, non mi sentirei di additarli quali esempi di virtù civili. Con Alberto Nigra, Cosimo Cappucci e Sandro Manni detto Porfirio, mi incontro ogni sera al Palo Alto di Porta Romana. Poi si aggiunge qualcuno, a volte Rinaldo, quando litiga con la moglie, cioè quasi sempre, a volte Cristiano, quando non gli tocca il turno di notte. Niente donne, rigorosamente bandite. Non vogliamo correre il rischio che qualcuna, levatrice la promiscuità, possa partorire qualche idea balzana, tipo eventuali fidanzamenti. La vita ti offre tali e tante opportunità che limitarsi alle poche note negandosi le infinite ignote ci sembrerebbe inescusabile follia. E poi, soprattutto, le donne non amano il poker, che è il vero collante delle nostre serate. Giochiamo con accanimento ma con precisi ed invalicabili limiti al rilancio. L'azzardo ha finito con l'annacquarsi ma in compenso abbiamo salvato la nostra amicizia. Per i miracoli della statistica il dare e l'avere tra noi è perfettamente in equilibrio; i soldi sono diventati il sale che dà più gusto alla nostra passione ma continueremmo a giocare anche senza. La verità è che siamo dei drogati, drogati di carte intendo.
Fuori dall'ospedale, uno in piedi a braccia conserte e l'altro seduto sul muricciolo del parcheggio, mi stanno aspettando Alberto e Porfirio. Mi sembrano i due bravacci che attendevano al varco Don Abbondio. E sinceramente non so se abbracciarli o mandarli a fanculo. Mi hanno atteso con trepidazione sincera, lo so, ma in quell'attesa vi era anche una latente crisi di astinenza. Nel dubbio ho fatto entrambe le cose:
"Siete già venuti con le carte in mano razza di stronzi? Io potevo morire e voi pensate solo al poker".
I medici mi hanno detto che potrò presto tornare alle mie abitudini di vita. Se le avessero conosciute, le mie abitudini di vita, sarebbero stati certamente più cauti. Suor Beatrice mi ha salutato con affetto. "Nessuna paura Dante. Una donna della California dopo il trapianto cardiaco ha scalato il Kilimangiaro". Se vogliamo parlare di miracoli io mi accontenterei di una scala reale.
"Dante si ricomincia. Stasera ti aspettiamo".
"Ma con quel cuore nuovo possiamo considerarti il pirla di sempre?"
Già, Alberto involontariamente ha toccato la vera questione. Che è la seguente. Io, adesso, chi sono? Sono sempre Dante Pagani, agente Axa Assicurazioni, filiale di Milano Porta Garibaldi, giocatore di poker, celibe, gran fumatore, odiatore dello sport, amante della città? Della città non potrei fare a meno. Ho scelto apposta una mansarda in San Babila, pieno centro. Se potessi andrei a vivere sul tetto del Duomo, in un gazebo tra le sue guglie. Mi piace il traffico della gente e delle macchine. È come vivere su un filo elettrico, sono quelle scosse a tenermi vivo. Mi inebrio al rumore della città, è come una sinfonia di Bach per le orecchie dei melomani. Detesto lo snobismo della nuova moda campagnola. Sai che gusto osservare le rane che saltano nello stagno e riempirsi le braccia di ponfi di zanzare. Di animali sopporto solo i piccioni, quelli del Duomo, solo perché solo i miei vicini di casa, li ritengo piccioni cittadini. Datemi le luci della notte, il neon che lampeggia e la gente che si accalca sul marciapiede. Voglio l'aria condizionata dei supermercati, il giornale sotto casa e il cappuccino al bar.
Quella volta, la prima della mia vita, che sono andato a passeggiare tra i boschi del Parco delle Groane, a Cosimo è venuto uno stranguglione. Se gli avessero detto di aver visto un pinguino all'Equatore, sarebbe stato meno incredulo.
"Sei andato ad assicurare i funghi, Dante?"
"Me lo ha consigliato il dottore. Passeggiate in mezzo al verde. Devo ossigenare il cuore".
Non era vero, non me l'aveva consigliato nessuno. Ma anch'io avevo bisogno di una scusa; stava succedendo qualcosa di strano dentro di me, qualcosa di inspiegabile. Desideri mai pensati si affacciavano alla mia coscienza. Emozioni nuove venivano a stuzzicarmi sottopelle. Era in atto un cambiamento che mi straniava; non riconoscevo più me stesso e nemmeno i luoghi dove avevo sempre vissuto. Mi sentivo all'equatore e forse stavo veramente diventando un pinguino.
Prendiamo ad esempio la questione delle piante. Io non ho mai visto una pianta se non quelle loffe e stentate dei viali di Milano, né ho mai sentito la voglia di vederle. Ero un Marcovaldo di città e i miei boschi erano di vetro e pietra, intrichi di palazzi e cartelloni pubblicitari. Di verde per me esistevano solo i semafori. Adesso lascio l'agenzia nelle mani delle segretarie, polizze e sinistri mi fanno venire il voltastomaco, e mi rifugio in biblioteca dove sprofondo nella lettura di ponderosi volumi illustrati sulla vita delle piante.
Io che non distinguevo una quercia da un baobab adesso mi emozioni di fronte alla bellezza dei salici piangenti. La loro chioma di rami penduli è sempre piegata verso il fiume. Ed anch'io mi sono convinto che l'acqua che vi scorre di sotto non scaturisce da sorgenti di montagne lontane ma dalle lacrime dei salici. Come sono sicuro che i pioppi sono le sorelle di fetente, così trasformate dagli dei dopo aver a lungo pianto il fratello, sbalzato dal cocchio celeste da un fulmine di Zeus, irritato perché i cavalli del dio Sole, sfuggiti al suo controllo, si stavano avvicinando troppo alla terra.
Un mondo nuovo si è spalancato di fronte a me. Abitudini, passioni e priorità, dopo l'operazione tutto è finito sottosopra, e gira, si mescola si confonde; come dentro una immensa lavatrice. Io con il naso attaccato all'oblò vedo vorticare la massa uniforme che è diventata la mia vita e non capisco. Tutto mi sfugge ma sento che qualcosa di incredibile sta per compiersi. Lì dentro è nascosta una energia potente e misteriosa che ioo so di non aver mai posseduto. Come tutto ciò che non si conosce questa forza in fondo mi spaventa.
Di una cosa sono oscuramente convinto. La forza di questa energia misteriosa, la causa di questo terremoto si trova dentro di me, in questo cuore che batte i suoi colpi e irradia le sue vibrazioni.
"Dante chi hai incontrato nel bosco, Cappuccetto Rosso o il Lupo Cattivo?"
Anche Porfidio è un uomo di città. La moglie per le vacanze lo trascina ogni anno in Sardegna. "Che strazio, neanche un po' di smog". Porfirio è una sagoma. Benchè regolarmente ammogliato, oltre alle carte sono le donne. Ci prova invariabilmente con tutte quelle che incontra. Si butta contro le loro difese sperando di indurle velocemente alla resa. Come un montone abbassa la testa e attacca. Ma i muri resistono. Le donne, evidentemente spaventate da quell'impeto, si ritraggono e si riposizionano guardinghe lontano dalle sue testate. È un playboy all'incontrario, di quelli che non fanno mai centro. Non è Porfirio Rubirosa ma solo Porfirio, ed è così che lo abbiamo soprannominato.
"Domani ti porto con me Porfirio. Voglio farti scoprire la bellezza dei boschi. Le piante parlano".
"Se giocano anche a poker vengo".
Ho fatto venire uno stranguglione anche ad Alberto quando ho deciso che i percorsi del parco delle Groane li avrei fatti di corsa. "Devo far lavorare il cuore. Ordine dei medici". Ma era una balla anche questa. In realtà ho sentito dentro di me qualcosa che mi riportava all'infanzia. Il desiderio di correre è arrivato da lì. E con lui una sensazione di gioia antica.
Correvo. Correvo di nuovo. Come le sere d'estate dopo cena quando uscivo di corsa di casa perché i miei amici mi aspettavano laggiù, sulla panchina dei giardini, e non vedevo l'ora di raggiungerli, e perdere anche un solo istante mi sembrava intollerabile.
Correvo. Come quella volta che letti i cartelloni - Sì! Promossi! - ho fatto di volata il tragitto del Liceo Sannazzaro alla casa di Filippo Dentici, mio compagno di banco e di paure. Ed era una maratona anche quella perché anch'io come Filippide andavo ad annunciare una vittoria.
Cento altri episodi mi sono tornati alla mente. Correndo mi sono riappropriato di me stesso. I ricordi, sepolti sotto l'impellenza di inutili fastidi quotidiani, hanno fatto capolino da sotto la sabbia. La corsa, come lo scopino di un attento archeologo, li ha disgelati uno ad uno.
Il cuore rispondeva meravigliosamente. Ne seguivo il ritmo senza mai sforzare. Mi regolavo con le poesie. Recitavo tutte quelle che avevo imparato a scuola e credevo di aver dimenticato. Invece rampollavano alla mente fresche come ruscelli. Era il mio personalissimo test "corri e parla". I manuali di fitness ti insegnano che si deve correre in equilibrio di ossigeno e se lo si fa correttamente deve rimanere anche il fiato per parlare.
Ogni giorno allungo il mio limite, oltrepasso di un po' la soglia della fatica. Mi metto alla prova, gioisco per i miei miglioramenti quotidiani. Accolgo con gratitudine la fatica che sento arrivare perché so che mi rende migliore. Mi asciuga corpo e pensieri. Mi leviga come un sasso di fiume eliminando il superfluo e il malato, grasso e pensieri cattivi, lasciandomi l'essenziale, la rotondità della pietra ed il bianco luccicante dei pensieri antichi.
Il cuore mi dà piccoli strappi, come tuffi di emozione. Come se in quella fatica avesse riconosciuto qualcosa di familiare. Del resto i dottori me l'avevano detto che era un cuore ben allenato, un cuore fatto apposta per la corsa.
In questo periodo ho aumentato il numero degli allenamenti perché ho deciso di partecipare alla maratona di New York. L'idea mi è venuta così, all'improvviso, una notte che fissavo il soffitto ed il sonno non voleva arrivare. La sera non avevo letto nulla che mi potesse richiamare l'America o la maratona, New York o la corsa, nessun messaggio subliminale mi galleggiava nella mente eppure quella idea era dolcemente affiorata. Come se fosse già presente dentro di me, nascosta in chissà quali reconditi e misteriosi anfratti, e spinta dalla corrente del mio stesso sangue avesse terminato il suo viaggio proprio quella notte approdando alla mia coscienza.
Perché no, mi sono detto. Deve essere una emozione fantastica; è il sogno di ogni corridore, ed io ormai sono diventato un corridore.
Ho chiesto a Sandro e Porfirio se mi volevano accompagnare. "Fosse Las Vegas ci verrei volentieri, ma New York proprio no, non me la sento, scusa tanto Dante. Non la fanno la maratona di Las Vegas?"
La compagnia l'ho trovata ugualmente. Navigando su internet alla ricerca di tutte le informazioni utili ho scoperto che un gruppo di Pavia ne organizzava la trasferta. Ponevano però una condizione: chi si aggregava si obbligava a gareggiare con la loro maglietta.
"Volete pubblicizzare il vostro club podistico?"
"Non abbiamo club podistici e non vogliamo pubblicizzare niente".
"Siete tutti corridori?"
"Non abbiamo mai corso in vita nostra".
"Allora volete conoscere la città."
"Di New York non ce ne frega un cazzo. Stiamo bene a Pavia".
"Non capisco."
"Capirai".
Adesso sono qui, sulla salita del ponte di Verrazzano, ad attendere lo sparo dello starter. Sono in mezzo a loro, e ho capito. Ho capito la mia voglia di correre, l'amore per le piante, la maratona di New York. Ho capito da dove proviene la forza misteriosa che si è impadronita di me, le passioni che mi hanno reso un uomo diverso. La lavatrice ha smesso di girare e la matassa informe si è dipanata. Adesso tutto è chiaro.
"Era il nostro migliore amico. È morto a febbraio, travolto da un'auto mentre si stava allenando. Si stava preparando per questa maratona. Ci teneva così tanto a farla. Per questo siamo qui. La vogliamo correre per lui".
La foto stampata sulle magliette rimanda l'immagine di un giovane sorridente in tenuta da corsa. Nello scintillio degli occhi c'è tutta la vaghezza estatica della gioventù, sguardi che non si concentrano su un punto ma abbracciano languidi l'orizzonte. Sotto la fotografia la scritta: "Maratona di New York 2005. La corriamo per te."
"Sono qui con noi anche i suoi colleghi dell'Orto Botanico. Oltre alla corsa la sua passione erano i fiori e le piante".
Marica si dilunga nelle spiegazioni ma a me non servono. Il cuore, prima di lei, aveva inviato i suoi messaggi, aveva già inciso i suoi segni. Misteriosi geroglifici nascosti nel sangue ma già scritti dentro di me attendevano solo di essere decrittati.
"Era un angelo". Sì, lo so.
Lo sparo dello starter è come una mano gigantesca che spinge in avanti le spalle di migliaia di persone. Adesso devo solo terminare la corsa. Anch'io ho indossato la maglietta. Ma non sto correndo per lui, come pensano tutti. Io sono con lui e stiamo correndo insieme.
Teodoro Lorenzo
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