Il Fontegno del Gino
Febbraio, correva l'anno 1950, la guerra era finita da poco.
Il Gino si era accostato alla piccola finestra che dalla piazzetta di Cireggio s'affaccia verso la ripida salita che porta alle Quarne ed alla Madonnina. Nuvoloni bigi sullo sfondo e nell'aria secca, palpabile ed imminente l'arrivo della neve. "Perché no..." disse fra se richiudendo le ante e facendo scorrere la tendina sulla piccola riloga di legno. Il Gino uscì di casa e prese a salire il ripido sentiero acciottolato, con calma, respirando intensamente quella sua terra, quei suoi monti e quel suo lago dipinto. "Probabilmente su al Castellaccio starà già nevicando..." Salì lesto.
Febbraio 2003.
Molte nevi ed altrettante lune si erano succedute da quella scarpinata e quella lontana mattina di febbraio. Il Gino si era affacciato alla finestrella ed aveva guardato la sua salita, lo faceva sempre. Da molto tempo infatti non poteva più percorrerla. Il cielo era grigio come quello di molti anni prima: prometteva neve.
Uno strano trambusto proveniva dal Circolo, e poi, quasi per incanto un originale pallone giallo andava prendendo forma proprio sulla strada. Ma cos'era? Il Gino restò alla finestra a guardare. Persone stranamente abbigliate stavano correndo in tutta la piccola frazione e poi, nell'aria gelida, la musica e la voce di uno speaker. Ma cosa stava succedendo? Cosa poteva portare tutta quella gente a radunarsi lì, fra l'altro in presta mattinata? Era una gara... Certamente doveva trattarsi di una gara... Guardò con più attenzione, quasi che tutta quella gente potesse arrivare a disturbare persino la quiete di quel febbraio tanto lontano nel tempo. Sospirò. Un fischio diede il via alla gara e mise un freno al suo fantasticare nel passato. Per lui, era tutto finito. Aveva visto quelle persone lanciarsi in corsa ed ora che la strada era libera ed era rimasta solo la musica dagli altoparlanti a lui non restava altro che accoccolarsi davanti al camino per far trascorrere la domenica in attesa di scendere al Circolo a bere la solita "medicina". Non ebbe il tempo per richiudere le tende che già i primi della gara stavano comparendo dietro al tornante. "Beh, perché non vedere l'arrivo..." pensò. Fu sorpreso. I ragazzi non si erano fermati come credeva, bensì avevano imboccato la scaletta che conduceva all'oratorio del Fontegno. Ed erano molti, certo più di cento, che, arrivati da chissà dove, salivano la mulattiera.
Il Gino sussultò. Allora l'amore per quei luoghi non era destinato a scomparire, il sentiero non era destinato a ricoprirsi di spine ed erbacce come l'ultima volta che l'aveva percorso quando ancora le gambe lo permettevano. Il Gino si infilò lesto il pesante maglione di lana, la giacca della festa e mise il cappello, quella mattina poteva anche permettersi una razione doppia di "medicina". Scese in strada che già i primi erano segnalati al "Castellaccio". Conosceva bene quei sentieri e fu sorpreso della velocità in cui l'avevano raggiunto. Per lui, che molte volte l'aveva percorso sembrava quasi impossibile.
I minuti scorrevano. Dalla curva era apparsa una bicicletta e subito dietro il primo concorrente. Correva che non sembrava aver percorso tutta quella strada. Bernardini si chiamava, doveva essere uno di quelli forti da come tutti si congratulavano con lui. Subito dopo erano arrivati altri due concorrenti, leggermente staccati, ma anch'essi parevano non aver corso. Uno si chiamava Piana e l'altro Volpone... Il Gino sorrise: "Sono dei nostri..." pensò ricordando i cognomi del Cusio e della Val Strona. Intanto altri concorrenti arrivavano. Tutti dicevano che era un percorso massacrante, ma tutti avevano un sorriso felice mentre si recavano al tavolo per bere un te caldo. "Al vin brulè, altro che sta porcheria di tea..." Poi erano arrivate anche le donne. Al Gino erano sempre piaciute le donne, ma era ancora di vecchio stampo e non si sarebbe immaginato di vederle giungere all'arrivo, soprattutto di una gara così dura. "Ciapétt..." pensò. Si stava facendo tardi e mentre fuori l'organizzazione distribuiva premi e regali; mentre si scattavano foto e nell'aria suonavano le note di "We are the champions" il Gino s'accostò al bancone e contento ordinò un bel bicchiere della sua "medicina".
E venne il febbraio del 2004.
Guardò fuori. Candidi fiocchi di neve scendevano a valle stagliandosi nitidi e soffici sul versante occidentale del Mottarone. Dalla finestrella della cucina il Gino osservava quella candida danza in un silenzio rotto solamente dallo scoppiettio del fuoco nel camino. Poi, con calma, voltò lo sguardo verso nord, verso il Massone, verso Megolo. Un vento gelido filtrava dalla finestrella insinuandosi tra le piccole fessure del serramento in legno. "Ah, il vento del Nord..." pensò il Gino. Un immagine lontana nel tempo si fece strada nella memoria e lo fece ritornar indietro negli anni...
...e negli inverni, e nelle fredde nevicate dei tempi della resistenza partigiana. Era un giorno nero e cupo, vento gelido anche allora proveniva da nord e trascinava con se brandelli di un'improbabile perturbazione. Neve di trasporto, neve finta, di quella "che non rimane giù"”. Ed il Gino ricordò le notti fredde e le corse per i sentieri di montagna a rincorrer quel che era un sogno di libertà: la voce del Capitano, la voce del Beltrami.
Un tremito lo scosse ed una lacrima gli riempi gli occhi al pensiero degli amici, dei giovani compagni di resistenza caduti a Megolo nel lontano '44. Per chi aveva vissuto quei momenti, per chi aveva partecipato alle lotte della resistenza antifascista quei sogni si presentavano spesso alla memoria raggelando cuore ed animo.
Il Gino pensò alle scarpinate ed alle fughe nella notte allorché le poche ed eroiche staffette sopraggiungevano avvertendolo dell'imminente pericolo di rastrellamento. Ma per chi avevano combattuto? Per cosa e perché si erano sacrificati quei giovani allora diciottenni? Perché mai lui stesso aveva rischiato la propria vita? Il Gino si rammentò di come gli scaldava il cuore sentir parlare di libertà, di come alti fossero gli ideali per cui aveva combattuto e per i quali si era schierato nelle file della resistenza.
Con un sospiro si allontanò dalla finestra risistemando la tendina a scacchi bianco rossi. La televisione stava trasmettendo il programma "Amici". "Mah...", bofonchiò. Giovani. Ma cos'erano i giovani? Ma come venivano trattati i giovani d'oggi? Ridotti a spot pubblicitari, a macchiette e burattini in mano ai media? Dov'erano i valori dei suoi sogni del '44? Probabilmente erano divenuti il sistema per far lievitar il valore di 30 secondi di spot di una crema di bellezza piuttosto che di uno yogurt, durante il "Grande fratello".
Si infilò il cappotto e gli scarponi ed uscì. Trascorse un'oretta al circolo. Mentre sorseggiava la sua "medicina" incontrò il Giacumin detto "Osci", un anziano maestro delle scuole elementari. Il soprannome di "Osci" gli era stato affibbiato da tempo, poiché spesso, per dar sfoggio della sua cultura con gli amici, iniziava lunghi monologhi sull'origine del nome della città di Omegna, del Cusio e di ogni Comune dell'Ossola. Ma il Gino non era certo in vena di trattazioni culturali quel giorno e, dopo aver vuotato il bicchiere ritornò in strada a perdersi nei suoi pensieri.
Aveva smesso di nevicare, ma il vento gelido non s'era calmato, anzi, sembrava ancor più tagliente nello sferzare la pelle nuda e ruvida del suo volto. Il Gino girò a sinistra, e percorse pochi metri di strada, poi, qualcosa gli venne alla mente e lo fece voltare completamente. Fermo immobile, fissò la strada che saliva ripensando ai giovani. Non certo quelli delle trasmissioni tv, ma a giovani semplici come lo erano stati i suoi compagni in quei tempi andati. Era lì, fisso al centro della strada che con ripidi tornanti portava alle Quarne e... pensava.
Un'altra immagine si fece largo nella sua mente. Si spostò e vide che nella piccola bacheca di legno compensato spiccava un volantino di una gara podistica. "Il Fontegno in corsa" lesse, ricordandosi delle emozioni vissute poco meno di un anno prima nel vedere tanti giovani lanciarsi correndo sulle rampe del sentiero che portava all'oratorio della Madonnina del Fontegno. Una nuova edizione della gara si sarebbe corsa da lì a pochi giorni. Il ghiaccio che sino a quel momento gli aveva attanagliato l'animo si sciolse ed un'idea prese a farsi strada nella sua mente. A casa nessuno lo stava aspettando; erano anni che ormai nessuno lo aspettava più.
Salì sino all'imbocco della mulattiera. Era lievemente coperta di nevischio, ma si presentava pulita. "I ragazzi..." pensò ricordando il rumoroso frastuono di motoseghe e decespugliatori dei mesi precedenti.
Già, a casa non lo aspettava nessuno. Prese a salire, piano, regolare e dopo pochi tornanti il fiato era già corto, ma la fatica che gli svuotava i polmoni gli scaldava il sangue. Cosa avrebbero pensato i suoi amici vedendolo salire il sentiero? Forse che era impazzito. O forse no, non sapeva e non avrebbe potuto saperlo, anche perché molti dei più cari erano già scomparsi da tempo. Rallentò acquistando un passo tranquillo, mentre la mente correva e correva. Pensò a quella notte buia in cui era fuggito su per il sentiero. Il premio non sarebbe stato certo una coppa. Da lontano, tra le fronde spoglie e gelate si intravedevano bagliori di bombardamenti lontani. Lui saliva e saliva e correva allora.
Erano trascorsi una ventina di minuti e stimò che ce ne sarebbero voluti altrettanti per arrivare al piccolo oratorio. Fece una pausa. Ammirò il Lago d'Orta (il Cusio), l'isola lontana di San Giulio e ancor oltre la torre di Buccione. Peccato per il grigiore della giornata altrimenti il panorama sarebbe esploso di colori.
Riprese a salire, sino a scorgere il piccolo Oratorio. Avrebbe potuto arrivarci, salire sino al minuscolo piazzale ancora una volta e da lì ammirare ancor meglio la bella vista. Ansimando di fatica rammentò la velocità con cui aveva affrontato quelle rampe il giovane che poi aveva vinto la gara un anno prima.
Il vento era cessato, e piano piano la neve aveva ricominciato a scendere. "Questa è di quella che rimane" pensò tornando lesto sui propri passi non senza una punta di rammarico. Ma era molto che non camminava così a lungo, tanto meno su terreni sconnessi e ripidi come quello. Lentamente la neve andava a depositarsi sulle fredde pietre e sul ciottolato irregolare, ma lui ormai era giunto alla fine. Non si era sbagliato: la neve aveva preso a cadere con regolarità ed ora un sottile velo bianco, in basso, copriva i tetti di Cireggio. Sperò che non continuasse. Sperò che smettesse. Lo sperò per quei giovani volenterosi che avevano rispolverato quelle vie dimenticate.
Mosse la maniglia del cancellino e si avviò verso l'uscio. Nessuno stava ad attenderlo, ma domenica ci sarebbero stati molti giovani con cui bere una "medicina"... Allora, forse, in quel lontano inverno non aveva combattuto per niente.
Nicola Bovio
Torna a Storielle di corsa