Ostrega che corsa!
Usa/Washington - Duecentocinquanta iarde sono un po' meno di duecentocinquanta metri. Duecento e quaranta per la precisione. Questa è la lunghezza della insolita corsa podistica nella cittadina di Bow, ad un'ora di autostrada da Seattle. La particolarità di questa manifestazione - intitolata "Low Tide Mud Run" (corsa fangosa della bassa marea) - sta nel percorso che è appunto sul tratto di spiaggia che affiora quando il mare si ritira. Il luogo di ritrovo è la Taylor Shellfish Farm, una "fattoria di mare" dove si allevano molluschi, che ogni anno organizza una specie di sagra delle ostriche.
Leggendo il volantino degli organizzatori - a caratteri cubitali c'è scritto che si tratta della corsa più dura di tutto il nordovest americano - mi scappa da ridere. Cosa vuoi che siano duecentocinquanta metri? Sono nel fango, va bene, ma sono sempre la metà della metà di un chilometro. Se voglio, li faccio su una gamba sola. Non peraltro ho trenta anni di esperienza di corsa e due centochilometri nel mio palmares.
Il percorso sono i tre lati di un quadrato: si parte dalla riva, si va a diritto per ottanta metri, quindi si gira a destra, altri ottanta metri, si gira ancora a destra e ci sono gli ultimi ottanta metri, dalla banderina allo striscione di arrivo. A vederlo da riva quasi mi dispiace che sia così corto. Magari ci fanno fare tre giri, spero.
Che ho preso un bel granchio me ne accorgo però ancora prima di partire. Siamo un centinaio, allineati a riva, e quasi trecento persone a guardarci. Io ed un'altra dozzina di partecipanti siamo già affondati nella melma nera fino al ginocchio. Cerco di risalire alla superficie e di restarci almeno fino allo sparo della partenza, ma non riesco a tirarmene fuori. Impantanato ancora prima del via: si comincia bene. Il podista accanto a me mi aiuta. Mi afferra la coscia ed in due tiriamo verso l'alto. La mia scarpa vuole restare dove è ma allargo le dita dei piedi puntandole verso l'alto ed in qualche maniera riesco a non perderla per sempre. Il fango molla la presa ma l'altra gamba è ora affondata dieci centimetri più in basso. È quasi una situazione senza via di scampo.
È in quel momento che sento lo sparo. Schizzi di mota, urla, applausi. Vedo i partecipanti snodarsi sul tracciato di gara, ma io sono ancora lì, come un cannolicchio, piantato nella melma. Per quanto mi sforzi mi muovo solo dalla cintola in su. Sembra che corra da quanto mi agito, ma sono fermo. Poi da fermo cado in avanti. Ora sono pieno di fango fino al collo, ma appoggiandomi sulla pancia almeno riesco a liberare i piedi. E parto anche io.
L'immagine del cormorano nero di petrolio dopo il disastro della petroliera Exxon Valdez rende perfettamente l'idea di come mi presenti ad affrontare il primo tratto del percorso. Sono quasi irriconoscibile ed ancora non ho fatto un metro. Guadagno la superficie, faccio tre o quattro balzelli di corsa, appesantito dal fango che mi ricopre braccia, maglietta, pantaloncini, calzini e scarpe, quindi sono di nuovo con la melma al ginocchio. Avrò fatto si e no dieci metri, ma la lezione di umiltà l'ho già imparata alla perfezione: mai fare il gradasso e soprattutto mai prendere gli avvertimenti degli organizzatori alla leggera. Specie se sono scritti a caratteri cubitali.
Da fermo prendo lo slancio verso l'alto e faccio altri cinque o sei passi prima di impantanarmi di nuovo. I polmoni bruciano già per la fatica. Guardo davanti a me e comprendo l'enormità della distanza: duecentoquaranta metri? Ma siamo pazzi?!? E chi ce la fa ad arrivare in fondo?!? Ormai sono troppo distante anche dalla riva per poter pensare di tornare indietro. Forse mi conviene aspettare l'alta marea. Ma non demordo.
La prima bandierina, che è ora a cinquanta metri da me ed a duecentodieci metri dall'arrivo, mi sembra lontanissima, irraggiungibile. Guardo verso destra e vedo il primo che sta già per arrivare. Tutti quelli che stanno affrontando la terza parte del percorso stanno letteralmente correndo a pelo d'acqua e capisco che il trucco di questa corsa è correre (sembra banale ma è una rivelazione). Oltre che avere venti anni e venti chili di meno.
Se non altro non solo ultimo, o per lo meno non ancora. Mi sembra di essere sul set di un film di guerra sul Vietnam. Intorno a me i miei commilitoni stanno tutti combattendo per avanzare metro dopo metro nel fango. Rimpiango (mai successo prima) di non aver fatto il militare. Un altro slancio, altri cinque metri ed altri venti secondi fermo a riprendere fiato, la gola secca e la testa che ronza.
Quando arrivo alla prima bandierina, mi sembra di aver corso una maratona e sono solo ottanta metri. Davanti a me ci sono ancora due terzi del percorso e forse dieci concorrenti che devono ancora arrivare. Sono sfinito ma noto che c'è un banco di alghe che affiora a circa metà strada e questo mi dà la carica. Annaspando riesco ad arrivare alle alghe che, come immaginavo, danno consistenza al fondo. Posso finalmente correre qualche metro. Sto trascinandomi dietro due blocchi di cemento ai piedi, ma almeno corro. Dieci, quindici metri di corsa pura. So come si deve essere sentito il primo pesce evoluto qualche miliardo di anni fa quando è uscito dall'acqua per colonizzare la terraferma. Ma soprattutto mi sembra di essere rinato. Guardate sono ormai fuori dalla poltiglia dello Stige, la "morta gora" del canto VIII, purificato dal mio degrado morale.
Il banco di alghe non dura in eterno e le nere sabbie mobili mi aspettano a pochi metri dalla seconda bandierina per ringhiottirmi nella disperazione dell'immobilità. Le leggi della fisica cambiano quando corri nel fango. Non si cade mai come si cadrebbe correndo su un sentiero. Nessun volo, nessun momento acrobatico, nessun tuffo olimpionico. Nel fango ti pianti come un paletto e mentre il bacino resta fermo, la parte superiore del corpo si piega ad angolo retto, e fai semplicemente plop. Non c'è grazia, non c'è l'ooooh della folla per la caduta spettacolare. È un avocado maturo che si spappola sul pavimento sporco della cucina, non un calice di cristallo che si infrange sul cotto dell'Impruneta.
E il fango. Quelle boccate di fango che sanno di mitili, bombolini, telline, moscardini, capesante, fasolari, vongole, e tartufi di mare. Quel fango dall'odore acre che ti sembra di vivere l'incubo del pescivendolo. Quel fango che ora hai sugli occhiali, fra i capelli, nelle orecchie. Non ho mai fatto i fanghi termali ma non deve essere piacevole. Mi rialzo a mezza vita. Non posso pulirmi con il dorso della mano o col braccio o col gomito perché non ho un centimetro di pelle che non sia sporco. Ma sputo. È così salato il fango.
A salti e tentativi di corsa, raggiungo anche la seconda bandierina e adesso ho solo gli ultimi ottanta lunghissimi metri che mi separano dall'arrivo. È qui che perdo la scarpa destra. Torno un passo indietro, infilo la gamba nel buco e, a tentoni, la ritrovo. Siamo in quattro sulla dirittura finale e sarebbe alquanto patetico arrivare ultimo anche in una gara di duecentoquaranta metri, così do libero sfogo a tutto quello che mi è rimasto. Sbuffo, mi slancio in avanti, riesco a fare qualche passo di corsa. Percorro qualche decina di metri anche a gattoni, con le ginocchia e gli stinchi che si feriscono sulle conchiglie rotte.
So che strisciare nel fango non è quello che si dice dare il meglio di sé, soprattutto se di fronte a te sulla riva ci sono moglie e figlie, e decine di videocamere e macchine fotografiche che stanno riprendendo l'arrivo di questi quattro disperati. So che finirò probabilmente sul volantino del prossimo anno come illustrazione esemplare, proprio sotto all'avvertimento a caratteri cubitali che recita "La corsa più dura di tutto il nordovest americano". Sto facendo una figura da cozza ma voglio (devo) arrivare primo degli ultimi.
Lo striscione è ormai solo a qualche metro. Sento gli applausi della folla, poi all'improvviso un boato. Mentre taglio il traguardo vedo il terzultimo che sta letteralmente volandomi sopra in uno slancio disperato per battermi. È un vero tuffo olimpionico - tanto di cappello - che lo lascia comunque terzultimo ed a pelle d'orso nella melma. "Via costà con li altri cani!" lo apostrofo, prendendo in prestito le parole dalla bocca di Virgilio, e chiudendo a tono questa corsa infernale. L'organizzatore si congratula con me e mi mette la medaglia al collo. Appeso al nastro bianco rosso e blu, c'è il guscio di un'ostrica verniciato d'oro. "È proprio il caso di dire perle ai porci" penso ridendo, ma è una medaglia stupenda, sofferta, di quelle da mostrare orgoglioso. Dopo trenta anni di onorata carriera, inaspettatamente, ecco una medaglia che mi fa sentire di nuovo un ragazzino alla sua prima corsa.