Ho battuto il ponte!
Usa/Washington - Che corsa oggi! A Seattle si svolgeva stamattina - 20 maggio - la "Beat the Bridge" (Batti il ponte), una gara di otto chilometri molto particolare. La gara partiva infatti alle 8:40 ed alle 9:02 uno dei ponti mobili (levatoi?) lungo il percorso si apriva, dividendo il gruppo di concorrenti in due: chi era riuscito a "battere il ponte" proseguiva, chi non ce l'aveva fatta doveva invece aspettare cinque minuti, tra le parole di consolazione degli addetti dell'organizzazione, e poi - al riabbassarsi del ponte - cercare di ricongiungersi alla coda della corsa.
Quella del ponte era una sfida ardua ed il gusto di partecipare a questa corsa sta tutto lì. So che nessuno mi darebbe cinque lire (io stesso non nutrivo troppe speranze) ed invece a quarantacinque secondi dall'interruzione, stavo attraversando proprio il famigerato ponte. Ho battuto il ponte. Che gusto. Un sorriso da orecchio a orecchio. Una gratificazione personale che solo l'arrivare ad una centochilometri può superare, anche perché non ci sarebbe tanto gusto a battere il ponte di un quarto d'ora o di mezz'ora: invece a quarantacinque secondi dalla fine è tutta un'altra adrenalina. La vita va vissuta pericolosamente.
Ho attraversato il ponte godendomi ogni singolo passo, rimbalzando felice sulle grate, ammirando il panorama dello specchio d'acqua sottostante. Ho attraversato il ponte ripensando alla volta che, già ormai in terra di Romagna, alla "Centochilometri del Passatore" trovai le sbarre del passaggio a livello abbassate, solo che in quella occasione non correvo, seguivo la corsa, ed i podisti si piegavano sulle ginocchia dopo ottanta chilometri per passare, non senza rischio, oltre la ferrovia. Qui invece non sarei passato, l'acqua non perdona, il baratro non si salta.
Ma è stato un piacere che è durato poco. Giunto di là mi sono infatti sadicamente accorto che il vero divertimento doveva stare sull'altra sponda, quella che avevo appena attraversato. E sono tornato indietro, cogliendo, a dire il vero, gli organizzatori un po' alla sprovvista. Le sbarre di là si stavano inesorabilmente abbassando, il poliziotto con la motocicletta di traverso intimava l'alt a frotte di disperati. Ed ecco che da dietro le loro spalle spunto io.
Per non dare l'impressione di essere un esibizionista, comincio a scattare delle foto, ma detto fra noi, segretamente tronfio della mia vittoria personale, mi sono poi aggirato con un piacere indescrivibile, camminando beato a due metri da terra, fra le decine di sconfitti che nel frattempo continuavano ad arrivare e ad assieparsi al di qua delle sbarre, le decine di podisti lenti, matematicamente più lenti di me, che non ce l'avevano fatta ad attraversare lo University Bridge prima che si aprisse, e separasse nel giorno del giudizio podistico, gli atleti dagli scarpinatori, i giusti dai peccatori, gli eletti dalle torme dei senza speranza.
È stata un'esperienza gratificante, il riscatto del paria podistico, di tutte le volte che sono arrivato ultimo, l'orbo che è re nel mondo dei ciechi, ed anche se la mia superiorità non mi ha permesso di fraternizzare con la bolgia dei perdenti, tuttavia ho provato un attimo di commozione nel vedere una bambina di una decina di anni, seduta sul marciapiede col babbo, che piangeva. Era rimasta di qua dal ponte.
Dunque mi sono aggirato tra podisti seduti, sfiancati, sfatti, sopraffatti, scattando un po' di fotografie e rigenerando la mia energia vitale attingendo alla loro delusione; poi il ponte, quel muro di metallo che svettava alto nel cielo, il monumento alla altrui cocente sconfitta, si è lentamente riabbassato. All'aprirsi delle sbarre sono scattato, ho riattraversato il ponte di corsa e dall'altra parte ho indugiato ancora scattando altre foto alla feccia. Sapete, per quando i tempi non saranno più così rosa.
Ma è stato un attimo, tre istantanee ed ho visto la Luce. No, non era il flash. Mi sono invece accorto che ero il prescelto, il più veloce di tutti. Per una volta tanto alla partenza di una corsa ero il favorito. Ero il keniano. Ho chiuso l'obiettivo della macchina fotografica e - non ci crederete - mi sono messo a correre come se non ci fosse domani.
Immaginate la scena: il poliziotto americano su una Harley Davidson lampeggiante che apriva la strada, e subito dietro io, dopo aver ripreso quei pochi che avevo lasciato passare. Lanciatissimo.
Ad essere primi, anche se della seconda ondata, si dura fatica, e fa venire il torcicollo. Cerco di non lasciarmi sopraffare dall'emozione. Sono letteralmente gasato, dovendo respirare a pieni polmoni dal tubo di scappamento della motocicletta della polizia, come già mi successe un secolo fa, ad una corsettina serale a Grassina, quando fui primo per duecento metri col cuore in gola, i polmoni in fiamme ed un principio di intossicazione da gas di scarico per colpa del motorino della staffetta apripista.
Ma è una vera passerella trionfale. Almeno fino a quando non riacciuffiamo la coda del serpente. È a quel punto che il poliziotto si eclissa, mentre - orrore! - una coppia di retropodisti cerca di sorpassarmi, ad una velocità insostenibile che se davvero avessero corso così velocemente avrebbero dovuto battere il ponte, invece evidentemente no.
Come osano questi mortali sfidare un semidio? Come osano cercare di superare il cavaliere che ha sconfitto il drago di metallo?
Lo stadio, luogo di partenza e di arrivo, si vedeva ad occhio nudo, ma ho saputo amministrare senza sprechi le mie energie. Quello che i due blasfemi non sapevano (io si, perché l'avevo sentito dire da una staffetta) era che giunti allo stadio si dovevano fare ancora quasi un paio di chilometri di anda e rianda prima di entrare in pista e tagliare lo striscione.
Mi sono incollato alla coppia in attesa dello scoppio. E come volevasi dimostrare, prima della mia milza, è scoppiata la loro. Sembravano finiti, un ghigno mi è apparso sulla faccia, invece non hanno desistito per molto. Hanno riconquistato coraggio e sono tornati nuovamente all'attacco nel giro di duecento metri, mentre io cercavo di racimolare energie mentali superando a più non posso i più lenti del gruppo di prima, quelli che avevano battuto il ponte. Non mi sono lasciato passare. Ho fatto un altro allungo e loro due alle calcagna. Al giro di boa, ho aumentato decisamente l'andatura, il cuore a mille, il rantolo col fischio. Cinquecento metri, quattrocento, trecento, un'ultima curva ed ecco la pista. Per la prima volta nella mia vita sono vincitore al traguardo.
Vincitore morale. Confuso nella folla di quelli che il ponte lo avevano battuto, che ero primo lo sapevamo solo in tre, io e la coppia degli immondi. Una ragazza dell'organizzazione sotto lo striscione mi fa i complimenti. "Sono il primo dei perdenti" le dico e lei mi consola. Non ha capito proprio nulla, non cercavo consolazione ma applausi, fiori, giornalisti, telecamere. Poco male. Mi rifaccio subito dopo nell'assistere all'arrivo trafelato dei due sacrileghi. I due mi fanno le loro congratulazioni e voglio che questo momento duri per sempre. Fermo quindi una podista e le chiedo di scattarci una foto; d'altronde siamo sui gradini di un podio immaginario. Lei ci immortala: io nel mezzo e loro due rispettivamente alla destra ed alla sinistra del Padre.
Riguardo ora la fotografia di questa vittoria passata inosservata. Evvaaai! Ho battuto il ponte! Ho battuto il ponte! Dico: ho battuto il ponte!