New York grazie e a presto
Preparare una maratona è una scelta non solo atletica o agonistica, ma anche di vita, perché coinvolge la persona nello spirito e nei valori più intimi. Si tratta infatti, di una opzione verso un particolare modello etico di vita, che condiziona l'individuo in tutta la sua attività quotidiana, dall'alimentazione, al tempo libero, sino al riposo notturno, e lo costringe, peraltro di buon grado, al sacrificio di intensi allenamenti che, per l'amatore che in primo luogo ha un lavoro e una famiglia, si traducono in corse al mattino alle cinque o alla pausa pranzo o, ancora, di notte. Partecipare poi ad una maratona è il fine di questo modello etico che confluisce in una scommessa, tra i limiti della propria fisicità e la ragione (o meglio il sentimento) di giungere al quarantaduesimo.
La maratona di New York è anche questo, ma molto di più. Così anche l’edizione di questo novembre. Il di più è la intensa comunione e condivisione di tali valori intimi della persona a qualche migliaio di chilometri da casa con trentaduemila persone di tutte le razze e nazioni, ma di tale intensità durante la corsa da fondere l’individuo e il gruppo in un lungo percorso umano.
Il di più, ancora, è la comunione e condivisione di migliaia e migliaia di newyorkesi, di origine italiana, messicana, caraibica, africana, polacca, irlandese, in una integrazione etnica che è monito per chi corre e solo New York è in grado di offrire.
Non potrò dimenticare i colori e i suoni di questa comunione e condivisione, visto che mi sono dimenticato - tanto ero coinvolto - di fermare il cronometro ad ogni miglio (peraltro indistinguibile nella folla) e l'ho fermato solo al traguardo (4:03.03, poi confermato dal mio chip). Colori di visi e maglie, nelle due ore di attesa alla ricerca di qualche raggio di sole sui prati di Fort Wadsworth (come in "Miracolo a Milano"), di un posto nel tendone ove si tenevano contestualmente funzioni di tutte le religioni e sul ponte di Verrazzano, poi, all'imbocco del vialone per Brooklyn, folla di colore urlante, tra orchestrine di ottoni e complessi con ritmi hardpop.
Colori di manine nere, bianche, gialle, rosse dei bambini protese a toccare gli atleti, a Brooklyn, a Queens, sulla Prima avenue, sulla Quinta, a Central Park.
Frastuono di donne e bambini del quartiere polacco o messicano e sudamericano.
Urla, suoni e colori, ma anche pause, silenzi e grigiore, come sulla salita di oltre un chilometro del ponte Queensboro, dove si sentivano solo le scarpe, il fiato dei compagni vicini e il vento dell’oceano, e come nel quartiere ebraico, sotto lo sguardo triste degli ortodossi dalle lunghe trecce e gli occhi divertiti, ma silenziosi, dei loro bambini, in cappotti troppo grandi.
Giungeva presto il trentesimo, dalle parti del Bronx, con grandi case popolari, ma anche parchi pieni di bambini, dopo l'interminabile Prima avenue, culminante di folla, e poi la Quinta sino alla curva, per entrare in Central Park, dove - come i ciclisti sul gran premio della montagna - gli spettatori non tolleravano pause (spingendo gli atleti a riprendere al corsa, dopo trentasei/trentasette chilometri e ciò sino al traguardo).
Qui un sinistro rumore metallico, tante erano le medaglie per incoronare chi aveva vinto la scommessa del quarantaduesimo, e crepitìo di fogli sulle spalle sotto l'inesorabile incalzare del vento gelido che ti impediva di sorridere per i crampi allo stomaco (la prossima volta: una felpa sotto la canottiera), alla ricerca di panni asciutti, per me interminabile essendo il camion tra gli ultimi.
Un tè caldo in albergo, dopo il ristoro del sorriso di mia moglie e delle mie figlie, che ero riuscito ad intravedere ben due volte tra la folla nei luoghi concordati, con grandi cartelli "Claudio go! Go!".
New York, grazie e a presto.