Processo al Passatore
Il processo a Stefano Pelloni, alias il Passatore di Romagna, s'è svolto il 10 agosto 2002 nella Villa Torlonia di San Mauro Pascoli (Forlì-Cesena). Si sono confrontati una pubblica accusa: Roberto Casalini, ed una duplice difesa: Eraldo Baldini e Dino Mengozzi, di fronte ad una giuria composta da Miro Gori, presidente, Giuseppe Bollosi, Alfonso Celli, Pier Luigi Costa e Maurizio Ridolfi. Della corte faceva parte anche Ivano Marescotti di Bagnacavallo, proprio come il Passatore, particolarmente erudito nelle vicende di Romagna, il quale ha letto brani letterari e poetici, relativi alle famose vicende del bandito Stefano Pelloni. S'è discusso sia del Pelloni che del suo mito, nonché della Romagna che ha costruito la leggenda e di quella che invece la rifiuta.
Dato per scontato che Pelloni era un bandito, è stato chiesto alla giuria di stabilire quale tipo di banditismo fosse il suo; cioè se si sia trattato di un volgare tagliagole da strada o di un amico del popolo e conseguentemente fossero da assolvere e da condannare quelli che ne hanno costruito il mito e che l'hanno eletto a simbolo della Romagna. Dice infatti il verdetto finale:
"Stabilito che Stefano Pelloni, come hanno ampiamente dimostrato gli storici, è stato un bandito e anche feroce; stabilito altresì che il mito del Passatore a cui ci si riferisce non è quello folcloristico e mercificato attuale, bensì ottocentesco, la giuria riconosce all'unanimità che il Passatore e le sue bande traevano origine da una situazione sociale di grave disagio, miseria, oppressione e sfruttamento. La giuria, infine, a maggioranza assolve la Romagna dall'accusa di avere fatto di un bandito una leggenda. La leggenda fu creata dal popolo che vi rifletteva desideri e speranze di riscatto, poi poeti e narratori la legittimarono e la diffusero, primo fra tutti Giovanni Pascoli, fonte insospettabile in quanto vittima di quello stesso clima di violenza che lo rese orfano del padre da mano ignota in giovanissima età".
Lo stesso accusatore Casalini (editore) che ha avuto vivace scambio di battute con il difensore Baldini (scrittore) pur avendo affermato che in nessuna parte del mondo un brigante tanto feroce è assurto a simbolo di una regione, simbolo lo è diventato solo dopo la morte in una terra oppressa in cui il 20% del popolo mendicava. "Non condanno la Romagna", ha detto, "il cui popolo viveva in condizioni che legittimarono un mito inteso come liberatore dell'oppressore. Non assolvo però gli intellettuali consapevoli come il Pascoli che hanno alimentato il mito".
Il difensore Baldini ha replicato: "Viste le condizioni oppressive di allora, dominazione papalina da un lato e polizia austriaca dall'altro, chiunque riuscisse a tenere in scacco iil potere diventava un simbolo, uno che dava speranza, magari mal riposta". "Non credo", ha detto infine lo scrittore, "che il Passatore fosse peggiore di altri briganti" e, rispondendo a chi gli ha chiesto se sarebbe stato uno dei protagonisti dei suoi "gialli", ha aggiunto di ritenerlo troppo reale, preferendo manipolare i fatti con la fantasia.
Il processo ha riscosso un vivo successo di pubblico tanto numeroso che è stato ospitato nella Sala delle Colonne della villa da dove ha assistito al processo su un maxischermo in collegamento video in diretta col tribunale, sistematosi nella sala Archi. È stata anche un'occasione per approfondire la conoscenza della Romagna di metà Ottocento. Nella giuria colpevolisti sono stati Pier Luigi Costa, presidente del Consiglio comunale di Bagnacavallo, e lo storico Maurizio Ridolfi. Innocentisti l'altro storico Giuseppe Bollosi e Alfonso Celli, vicesindaco di San Mauro Pascoli, la città scelta non a caso per il processo perché, come s'è visto, fu proprio Giovanni Pascoli a iscrivere nella leggenda il Passatore. Anche il 10 agosto non è stato scelto a caso per celebrare il processo, perché è il giorno in cui fu assassinato il padre del poeta del quale assassinio non è mai stato scoperto il colpevole.
È stato un processo veramente curato in ogni dettaglio e celebrato da giudici e giurati contro il cui verdetto non sarebbe giusto ricorrere in appello, anche se di diverso parere è certamente il giornalista di "Avvenire" che vi ha assistito e sul cui quotidiano diciotto giorni dopo ha scritto fra l'altro: "Macché nuovo Robin Hood, il Passatore fu un brigante che vessò la Chiesa e il popolo". Altri giudizi sul processo non ne abbiamo letti o ascoltati, perché gli altri mass media che se ne sono occupati si sono limitati, come noi a fare la cronaca dell'evento.